Garre

A novembre ero tornato per la terza volta a Bruges, riuscendo a convincere gli amici promettendogli una birra stellare, così come mi era parsa le due volte precedenti.
Ma al civico 1 di De Garre è chiuso per ferie. La sfiga si unì alla beffa, perchè l'avrei mancato di un solo giorno e la Staminee avrebbe riaperto il giorno successivo, quando sarei stato già sull'aereo di ritorno.


Lacrime e sangue che pochi possono capire.
Il fato ha voluto che questa birra comparisse da queste parti per via alcuni scapestrati publican, e allora la bilancia della fortuna magicamente torna ad essere riequilibrata, o quasi.
La ritrovo al Tabir di Taranto e ovviamente prendo la serata libera per andarci appositamente.
Do a questa birra tutta la serata per permetterle di riportarmi a Bruges, perché ha senso riberla solo se si è stati là. È come una foto o una vecchia cartolina, che lancia ricordi appena la si ritirova ma comunica poco se isolata dal contesto.

Cercavo di spiegarlo circa un anno fa in un articolo su Fermentobirra Magazine, accomunando l'esperienza da De Garre ad altre simili come quella delle Zoigl o della Kölsch e Altbier.


Il publican Marzio mi concede anche il privilegio di berla là, nell'unico bicchiere arrivatogli insieme ai fusti. La birra è prodotta da Van Steenberge e pare essere una versione più "craft", meno filtrata e non pastorizzata di un loro cavallo di battaglia come la Gulden Draak, per cui sulla carta nulla di eccezionale ma qualcosa di unico sopravvive bypassando queste fasi di processo e regala alla piccola birreria di Bruges la Tripel Van De Garre, una birra bandiera nel panorama delle tripel belghe.


Dovremmo forse parlare di belgian golden strong ale, perchè il grado alcolico così spinto e la frutta a polpa gialla in evidenza la portano più verso quelle interpretazioni.
Sta di fatto che la birra è sempre lei, così come alla fonte.
Ed è sorprendente.

Quando affondo le labbra nella sua pannosa schiuma tutto torna alla mente. L'iniziale aroma vanigliato, di crema pasticcera, di tuorlo d'uovo e di zabaione si unisce al gusto maltato ed elegante, di leggero miele e poi ancora fruttato di pesca sciroppata, via via sempre più evidente appena la birra si scalda favorendo la comparsa della componente alcolica.


Splendida. La bisso, non voglio bere altro nè prima, nè durante, nè dopo.
Voglio godermela ancora viaggiando con la mente.
Anche se sono un po' conscio del fatto che non è come berla là sul posto, dove tutto il contesto rema a favore di una birra così spinta e che ad altre latitudini rischia di sembrare eccessivamente alcolica, eccessivamente fruttata, eccessivamente dolce, eccessivamente dotata di schiuma...rischiando di non essere capita.

Probabilmente anche tornare a berla là ancora non sarebbe mai come esserci stati la prima volta ed aver spalancato i sensi di fronte a questa opulenza.
Ma forse è il bello del beer hunting. È romantico e muove un certo affetto ricordare queste bevute, che quando le abbandoni vorresti tornarci il giorno dopo e ogni giorno successivo o ritrovarle ovunque, ma poi quando le ritrovi viene meno un po' il senso.
Non so se è davvero un bene che questa birra dal 2018 sia comparsa in qualche pub italiano. Certamente è più comodo rispetto alla bevuta sul posto, ma forse comincia a sembrare uno specchio di quel consumismo che ormai pggi permea anche le passioni, non solo i beni materiali.


In quella birreria apparentemente anonima ci lasci delle emozioni, un pezzo di cuore, perciò nonostante tutto varcare quella soglia (a costo di trovare quel benedetto vicoletto!) sarà sempre e comunque una tappa obbligata a cui arrivare.

Anche se si trova sulla porta un cartello di chiusura per ferie! :)


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